(Adnkronos) – Mentre tra le aziende di maggior dimensione domina una visione positiva della maternità, nelle aziende di piccole e medie dimensioni (pmi) ancora oggi prevale una visione della maternità come un valore che tuttavia crea complessità organizzative (ciò segnala il 30,9% delle pmi vs. 10,9% nelle grandi aziende). Nonostante questo, il mondo dell’impresa oggi – trainato soprattutto dalle grandi aziende ma rappresentato da un numero elevato di pmi – può rivestire un ruolo di primo piano nel promuovere un cambiamento nel paese e sostenere attivamente la genitorialità: lo evidenzia lo studio ‘Donne, lavoro e sfide demografiche. Modelli e strategie a sostegno dell’occupazione femminile e della genitorialità’, realizzato da Fondazione Gi Group e Gi Group Holding in collaborazione con Valore D e presentato questa mattina a Milano nel corso del convegno che si è tenuto all’Auditorium del Palazzo del Lavoro.
Lo studio – che rappresenta un unicum nel suo genere in quanto combina un approccio multidisciplinare e multistakeholder, l’analisi della letteratura internazionale e uno sguardo comparato su sei Paesi europei (Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Svezia) nonché l’ascolto della voce delle imprese, sia pmi che aziende multinazionali – è stato presentato oggi ad alcuni esponenti istituzionali di spicco con i contributi dello scrittore Alessandro D’Avenia e degli esperti Alessandro Rosina e Francesco Seghezzi.
In generale, iniziative per promuovere la condivisione dei carichi di cura risultano presenti sia nelle pmi sia nelle imprese di grandi dimensioni. Due grandi aziende su tre (60,3%), ad esempio, sono impegnate in attività di informazione sull’esistenza del congedo di paternità obbligatorio, rispetto al 46,7% delle pmi. A sorpresa sono proprie le pmi che si sono maggiormente impegnate a estendere la durata del congedo di paternità (29,8%) rispetto a quelle di grandi dimensioni (26,0%). Per quanto riguarda il welfare aziendale, la prima misura messa a disposizione da pmi e grandi aziende è l’assistenza sanitaria integrativa con copertura anche per i figli, che vede impegnato rispettivamente il 37,1% e il 46,6%. Di rilievo, il fatto che il 31,1% delle pmi e il 32,9% delle grandi aziende intenda implementare nidi aziendali o convenzioni con asili nido sul territorio.
Passando ad analizzare il contesto del nostro Paese, lo studio evidenzia come in Italia persistono diversi stereotipi culturali sulla maternità ancora fortemente radicati. Secondo i risultati della World Values Survey (WVS), un’ampia indagine condotta ogni 5 anni su 100 nazioni, il nostro è l’unico Paese in cui più della metà dei rispondenti (54,1%) si dice d’accordo con l’affermazione che una madre che lavora “danneggia” i figli in età prescolare (contro una media Ue del 30%). Non solo: siamo anche il Paese con la più alta percentuale di accordo con l’affermazione per cui se c’è poco lavoro è giusto vada data priorità agli uomini (25,4%, rispetto a una media UE dell’11,4%). I modelli culturali più virtuosi si riscontrano invece nei Paesi Bassi e in Svezia, dove il disaccordo con queste visioni è sempre nell’ordine degli 80-90 punti percentuali.
Stereotipi come questi si riflettono nell’assetto dei nuclei famigliari e nel conseguente sbilanciamento dei carichi di cura sulle donne e madri: dati alla mano, l’Italia è l’ultimo Paese per numero di coppie con figli 0-14 anni dove lavorano entrambi i partner (51,1%). All’estero questo avviene nel 63,2% dei casi in Spagna, nel 69% in Germania, nel 69,2% in Francia, nel 78% in Olanda e nel 78,9% in Svezia. Donne: un vero e proprio ammortizzatore sociale In questo quadro, non stupisce che l’Italia presenti il più alto tasso di inattività femminile in Europa (31%, rispetto a una media UE del 18,2%) e la più ampia quota di donne che lavora in part-time involontario: il 51,7%, oltre 30 punti percentuali sopra la media europea del 19,6%.
A sottolineare gli “effetti” della genitorialità sulle carriere femminili sono anche i dati relativi alle dimissioni: su 71.727 richieste avanzate nel 2022, ben il 75,4% è stato presentato dalle lavoratrici e solo il 24,6% da uomini. E mentre per questi ultimi la ragione prevalente è stato il passaggio ad altra azienda (78,9%), per le donne il motivo numero uno è risultata la difficoltà di conciliazione a causa della mancanza di servizi per la cura dei figli (41,7%).
La difficoltà per le donne di conciliare lavoro e genitorialità è connessa al calo demografico in corso nei Paesi dell’Unione Europea. Se tra il 2009 e il 2021 il numero di nascite in EU è passato da una media di oltre 4,6 milioni a poco più di 4 milioni l’anno (-11,5%), è ancora una volta in Italia che il fenomeno assume le proporzioni più drastiche, con una discesa del 30%. Peggio di noi la Spagna con un -32%. Al tempo stesso, cresce l’età delle madri al primo figlio, salita da una media UE di 28,8 anni nel 2009 a 29,7 anni nel 2021, con l’Italia a 31,7 anni. Le eccezioni tuttavia ci sono, guidate in primis dalla Germania, dove, anche grazie a un’attenta gestione dei flussi migratori, i nuovi nati sono cresciuti del 20% su base annua tra il 2011 e il 2021.
“L’Italia si trova di fronte a una sfida cruciale, da cui dipende la sostenibilità stessa del sistema Paese”, afferma Chiara Violini, presidente di Fondazione Gi Group. “Un mercato del lavoro -spiega- che non è in grado di sostenere l’occupazione femminile e agevolare le scelte di genitorialità è un mercato destinato a collassare. Le soluzioni però ci sono, come evidenzia lo studio che abbiamo realizzato insieme a Valore D, e per attuarle è fondamentale intervenire in modo strutturato e con una visione di lungo periodo su tre grandi ambiti. Innanzitutto, occorre valorizzare i giovani, favorendone un’opportuna transizione al mercato del lavoro, sostenendo il raggiungimento della loro autonomia economica”.
“In secondo luogo, serve un forte cambiamento culturale, capace di rimuovere gli stereotipi che penalizzano ancora fortemente le donne e le madri. Terzo, è necessario potenziare le misure per la conciliazione e la condivisione dei tempi di vita con quelli di lavoro, in particolare nella componente dei servizi per l’infanzia e dei congedi”, aggiunge ancora.
“Il nostro studio mostra come all’estero ci siano best practices molto virtuose ed efficaci in questo senso, penso in particolare alla Germania e alla Svezia. In questo percorso di cambiamento l’intervento pubblico può essere determinante, ma anche le aziende possono avere un impatto decisivo, agendo da apripista e sperimentatrici di progetti e sinergie che rispondano alle sfide occupazionali e demografiche, proponendosi come guide di un cambiamento sia culturale che organizzativo. Creare le condizioni affinché lavorare e avere figli sia per le donne, e per le famiglie italiane, una ‘reale scelta’ richiede l’impegno e l’assunzione di responsabilità di tutti: istituzioni, aziende, associazioni datoriali, associazioni sindacali, terzo settore, donne e uomini”, conclude.
Secondo Barbara Falcomer, direttrice generale Valore D, “è necessario diffondere una cultura che sposti l’asse dalla maternità come costo e complessità a maternità come valore aggiunto per il singolo e per l’intera organizzazione e per farlo bisogna lavorare a più livelli”. “Ancora oggi la questione più importante da affrontare per un reale cambiamento è quella contro gli stereotipi che vedono nella donna la principale caregiver. Le donne si fanno carico del 70% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura”, sottolinea.
“E’ partendo da queste considerazioni che molte delle aziende associate a Valore D hanno messo in atto politiche che si rivolgono e coinvolgono entrambi i genitori. Tra queste, l’estensione della durata del congedo di paternità (fino a 4 mesi), lo smart-working, la creazione di asili aziendali o le convenzioni con strutture territoriali che promuovono attività di sostegno concreto e coaching alle famiglie, e iniziative di accoglienza e reskilling delle donne al rientro dal congedo di maternità. Queste politiche di supporto alla genitorialità sono più diffuse nelle grandi imprese, meno nelle pmi, che spesso hanno meno risorse e talvolta sono più legate ad una visione tradizionale dei ruoli. C’è bisogno di scardinare cultura e sistema con politiche di incentivazione più forti al welfare, e anche agire sul piano legislativo per equiparare i congedi genitoriali”, conclude.