(Adnkronos) – “Vuoi un tatuaggio? Occhio al lavoro che intendi fare perché, se è vero che il 51% degli italiani è tatuato, in alcuni contesti lavorativi questo può rappresentare un limite. E’ il caso, ad esempio, di chi porta una divisa anche se alcuni ricorsi fatti dai lavoratori stessi sono stati vinti perché erano stati fatti in posti poco visibili”. A dirlo all’Adnkronos/Labitalia Marco Manzo, storico tatuatore romano famoso in Italia e nel mondo, titolare del Tribal Tattoo Studio, uno dei primi e più frequentati della capitale anche per i suoi elevatissimi standard di igiene e sicurezza, primo docente nei corsi professionali obbligatori in materia di igiene e sicurezza del lavoro e tecnica di tatuaggio e piercing sin dalla loro istituzione.
“Cerco sempre – sottolinea – di non avere i cosiddetti pentiti del tatuaggio e, quindi, quando vedo persone non troppo convinte oppure giovanissimi con il desiderio di tatuarsi in modo evidente consiglio sempre di farli sì, ma non in modo troppo visibile. Fermo restando che ci sono alcuni datori di lavoro che cercano invece persone tatuate, magari perché si rivolgono a una clientela giovane. Il tatuaggio – chiarisce – può essere un’opera d’arte, molti dei miei lavori sono infatti esposti alla Biennale di Venezia e a Santa Maria dei Miracoli a Roma dove il Vicariato ha appunto riconosciuto nel tatuaggio una ‘forma d’arte”.
E in effetti le segnalazioni di difficoltà e problemi in ambito lavorativo non mancano. Ad esempio, nel settore dei trasporti, in particolare delle compagnie aeree, ma anche nelle forze dell’ordine, come racconta ad Adnkronos/Labitalia Felice Romano, segretario generale del Siulp, il sindacato unitario dei lavoratori della polizia: “Ancora oggi registriamo casi di questo tipo, anche se di meno rispetto al passato. Ad esempio, ci capitò il caso di due colleghe che dopo due anni di corso si sono viste respingere il reclutamento per un tatuaggio sulla punta delle dita del piede, cosa ancor più discriminatoria perché le donne portando una scarpa decolleté sono riconoscibili rispetto a un collega uomo”.
Ma la posizione del sindacato è chiara al riguardo. “Noi siamo assolutamente contrari al fatto che il tatuaggio sia un discrimine per non entrare in polizia. Per noi è una cosa anacronistica e discriminante. Anacronistica perché poteva avere senso un tempo quando si chiedeva agli operatori di polizia giudiziaria di non avere una ferita, una cicatrice, e quindi anche un tatuaggio, che li potesse rendere riconoscibili nelle loro attività. Ma questo perché allora i tatuaggi li avevano solo le prostitute e chi aveva frequentato le patrie galere. Ma oggi sono tantissimi gli italiani che hanno un tatuaggio”, ricorda Romano che sottolinea come comunque “oggi ci sono meno casi di questo tipo”. “Sembra che l’amministrazione abbia compreso che è un tema ormai superato. Noi chiediamo comunque una revisione delle regole di reclutamento al riguardo”, conclude.
Ma qual’è la situazione ad oggi in Italia a livello normativo? Come sottolinea ad Adnkronos/Labitalia l’avvocato e giuslavorista Francesco Rotondi, name partner LabLaw e consigliere esperto Cnel, “nello specifico si deve evidenziare che non vi sono norme legislative, tranne casi particolari, che rendono impossibile il lavoro a chi è ‘tatuato’ e quindi la decisione privata di adottare un codice, una policy che prevede l’assenza o la copertura dei tatuaggi dei lavoratori trova fondamento nella libera conduzione dell’attività d’impresa”.
Secondo l’esperto, “esse possono limitare l’ingresso o determinare modalità comportamentali all’interno del luogo di lavoro”. “La legittimità di tali previsioni – sostiene – è pacifica laddove siano necessarie e opportune in relazione alla attività alla quale si riferiscono, mentre possono risultare illecite laddove si dovessero trasformare in comportamenti discriminatori poiché, ad esempio, prive di una reale giustificazione. Ritengo che non si possa avere una posizione netta sul tema poiché le policy, come le norme, non possono non tener conto del pensiero e del sentire sociale, ovvero ciò che determina il successo o l’insuccesso della norma stessa; i cambiamenti estetici, di abbigliamento, di linguaggio fanno in realtà del più ampio concetto di ‘cultura’, che è in continuo cambiamento e può creare problemi di distonia fra le varie generazioni”, sottolinea.
“Detto ciò, laddove un imprenditore dovesse avere particolari necessità o dovesse ritenere di condurre la propria attività applicando anche regole che arrivano a questo punto deve assolutamente dotarsi di codici e policy ben chiare e precise e laddove non dovessero sconfinare in atti discriminatori non vi è alcun dubbio circa la loro legittimità”, conclude Rotondi.
E Matilde Marandola, presidente nazionale Aidp – Associazione italiana per la direzione del personale, e grande conoscitrice del mondo delle imprese è chiara sul tema. “Personalmente, ritengo che il tema rientri nel filone della Diversity e Inclusion, che si occupa delle tendenze che si delineano nel tempo e ha il delicato compito di mantenere in equilibrio le nuove sensibilità emergenti dalla società e dai suoi bisogni con i doveri di rappresentanza e il rispetto delle persone. La questione riguarda la conciliazione tra libertà individuale e standing professionale richiesto e, nonostante sia necessario bilanciare questi due elementi, non credo si debba ricadere nel 2024 in rigidità che potrebbero allontanare soprattutto i giovani dalle organizzazioni di lavoro. Credo che la libertà individuale sia un bene primario e che vada garantita, così come il rispetto della persona”, conclude.
Di certo, rimane l’appello alla riflessione da parte di chi i tatuaggi li fa per professione: “Ci sono ancora contesti lavorativi – assicura Manzo – in cui i tatuaggi non sono tollerati e che spingono molti lavoratori a cancellarli, magari anche in vista di un concorso. E per cancellare un tatuaggio bisogna recarsi da un dermatologo che opera con un laser e non è un lavoro così semplice da fare”.