(Adnkronos) – “Nessuno più di noi sa che l’Egitto non è un Paese sicuro sia per gli egiziani che per i cittadini stranieri. Basterebbe leggere la scheda-Paese del ministero degli Esteri: si parla di sparizioni forzate, di tortura, e di violazione della libertà. Se tante persone scappano dall’Egitto vuol dire che non è un Paese sicuro e sul corpo di queste persone ci sono sempre segni di torture. E’ evidente che non è un Paese sicuro”. A dirlo l’avvocato Alessandra Ballerini, legale dei genitori di Giulio Regeni, a margine dell’udienza del processo davanti alla Prima Corte d’Assise che vede imputati quattro 007 egiziani, accusati del sequestro e dell’omicidio del ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel 2016.
In merito alla testimonianza in aula dell’ex direttore dell’Aise, Alberto Manenti, l’avvocato Ballerini ha sottolineato che “sono stati chiariti diversi punti, l’ostruzionismo egiziano, il muro di gomma che ha reso evidente fin dal 28 gennaio 2016 che Giulio era nelle mani degli apparati e non si trattava di una sparizione volontaria. Una convinzione per i servizi segreti anche degli altri stati”.
“Giulio Regeni non era un agente dei servizi segreti italiani. Nella struttura non lo conosceva nessuno e su mandato ho sondato anche i servizi inglesi, l’MI6: chiesi se era una loro risorsa e mi dissero che non lo era, io penso sia vero”, ha detto Manenti, sentito come testimone nel processo.
Manenti in aula ha ricostruito le fasi precedenti al ritrovamento del corpo. “Ci siamo trovati di fronte a un muro di gomma da parte degli egiziani”, ha detto, aggiungendo che nei giorni successivi alla scomparsa, in base anche ad una serie di elementi, la “situazione portava ad un fermo non ufficiale, una pratica spesso usata in Egitto sia per i cittadini stranieri ma soprattutto per i connazionali”.
Dall’audizione è emerso inoltre che il capo dei servizi segreti egiziani, il Gis, già il 3 febbraio del 2016 comunicò al suo omologo in Italia sulle ferite riscontrate alla “base del cranio” di Regeni. Ferite che sarebbero state accertate ufficialmente solo 10 giorni dopo, in seguito all’autopsia svolta in Italia. “Mi trovavo in albergo al Cairo. Il nostro capocentro al Cairo entrò nella stanza e mi disse che era stato trovato il corpo di Giulio. Chiamai immediatamente il mio omologo del Gis il quale prima mi disse che avrebbe accertato del ritrovamento e mi chiamò dopo circa mezz’ora. Quando gli chiesi le cause della morte mi disse ‘ci sono traumi, segni alla base del cranio’. Tra me e me pensai ad un colpo ricevuto da un corpo contundente. Lui parlava di segni esterni”.
Capo Aise: “Mio omologo disse National Security aveva attivato team ad hoc”
“Il 27 gennaio del 2016 contattai il mio omologo del Gis a cui dissi della scomparsa di Giulio: lui non sapeva nulla ma mi assicurò che si sarebbe attivato. Poi il 2 febbraio, quando ancora non c’erano notizie sulla sorte del nostro connazionale, mi disse di avere attivato la National Security che a sua volta aveva attivato un team ad hoc su scomparsa”, ha detto in aula Giovanni Caravelli, direttore dell’Aise e all’epoca dei fatti numero due dell’agenzia, sentito come testimone.